La testimonianza è custodia dei piccoli
Siamo abituati a parole incomprensibili perché astratte, retoriche o vuote. O, ancora, parole abitate dal conflitto e perciò volte a distruggere ed eliminare l’interlocutore più che a costruire ponti relazionali.
I nostri giorni ci consegnano parole pretestuose rese ambivalenti, in cui per parlare di giustizia o di pace bisogna schierarsi contro qualcuno, perché senza il prefisso “anti” pare che i termini perdano di significato.
Si tratta del pensiero che legittima il riarmo per garantire la pace, la repressione per tutelare la sicurezza, la marginalizzazione di intere fasce di popolazione per rimanere tranquilli così come l’aborto per tutelare la propria libertà.
Anche la testimonianza di uomini e donne che hanno donato la vita per il bene comune viene strumentalizzata appropriandosi in modo esclusivo del diritto della memoria come accade già da alcuni anni per l’anniversario delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Trasformare il giorno della loro morte in un simbolo di contesa equivale a misconoscerli, a renderli apparenza fino a svuotarli di significato, impedendo loro di rivelarci il grande insegnamento che li ha portati a donare la vita senza tirarsi indietro.
Lo stesso accade quando sacerdoti come Pino Puglisi o Giuseppe Diana vengono ridotti a simboli dell’antimafia ecclesiale seppure il Vangelo che li ha abitati è molto di più che il mero contrasto alla criminalità organizzata.
Certo che si deve parlare delle mafie per conoscerne il fenomeno e la vile mentalità che continua a sfregiare il nostro Paese, ma la storia di simili Testimoni ci parla di bellezza e di visione che è andata ben oltre le provocazioni del male. Loro hanno mantenuto lo sguardo rivolto alla Luce ed è così che hanno attraversato le brutture che li circondavano custodendo la speranza della meta.
Gli stessi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno continuato a nutrire il senso della giustizia e la speranza del cambiamento rimanendo a lavorare senza riserve malgrado avessero consapevolezza dei veleni dei “palazzi” e delle trame omicide della mafie che quotidianamente contrastavano.
Le storie personali, dunque, dipendono dalla parola a cui si presta ascolto fino a lasciarla abitare dentro di sé. È la parola che risuona dentro fino a penetrare nel profondo impregnando di senso l’esistenza personale.
È di questo orizzonte che tratta il Vangelo di questa domenica (Gv 14. 23-29). Gesù mostra come è possibile custodire una memoria grata capace di generare vita malgrado le avversità.
L’esistenza del credente è attraversata dallo Spirito Santo che illumina la storia offrendo la luce necessaria per leggere gli accadimenti. Non si tratta di forzare la realtà ma di imparare a scrutarla oltre le apparenze secondo la visione dall’Alto che procura risonanza interiore e direzione di vita.
Schiacciare l’esistenza nel “qui e ora”, così come vorrebbe una lettura impulsiva dettata dall’appagamento immediato, equivarrebbe ad anestetizzare la memoria impedendo la capacità decisionale che porta alle scelte nutrite dagli orizzonti.
La memoria illuminata, infatti, offre visione e strumenti per discernere il bene che si desidera custodire. Non tutto è uguale e la vita dei martiri di giustizia continua a gridare la necessità di scelte significative. È responsabilità comune sottrarsi dai compromessi volti all’interesse individuale per difendere i diritti di tutta la comunità nessuno escluso.
Tutto viene abitato dallo Spirito Santo se gli si offre lo spazio interiore rinunciando a saturarsi con ogni sorta di bulimico appagamento capace di anestetizzare ed espropriare l’animo umano.
L’ascolto a cui si fa riferimento è intriso d’amore perché è frutto della relazione con il Signore. Lui è entrato nella vicenda umana fino a toccare l’estrema fragilità della morte, è così che ha amato raggiungendo la linea di confine che attesta, senza possibili riserve, l’impotenza di ogni persona. È in quel luogo relazionale ferito dal buio della morte che il Padre si è chinato per riportare a sé il Figlio ed è da allora che l’umanità è stata illuminata e amata in modo inedito dal Padre.
Comprendiamo, dunque, come l’obbedienza alla parola non è più su un piano moralistico o normativo ma è frutto di un’esperienza d’amore che genera fiducia e passione per la causa del bene. Lo spendersi senza riserve fino a mettere in gioco la propria vita scaturisce da questo coinvolgimento che supera anche la vergogna per le proprie fragilità e limitatezze: non è una performance d’eccellenza la missione quotidiana ma la risposta grata all’amore che si sperimenta nel cuore.
È così che il testimone rivela il volto di un altro mostrando la causa per cui vive, mai per se stesso.