Amare è consumarsi
La conoscenza è esperienza sebbene l’intellettualismo dei nostri giorni vorrebbe farci credere che conosciamo imparando a parlare delle cose ma senza viverle veramente. In quel caso saremmo, tutt’al più, degli studiosi ma la conoscenza privata dell’esperienza potrebbe farci nutrire una grande illusione dell’essere. È quello che accade ai pacifisti che conducono le loro diatribe sui social con fare belligerante, perché la violenza verbale o degli scritti è analoga a quella fisica, o chi fa dell’antimafia una campagna da congressi senza mai sporcarsi le mani stando sul campo. Anche la politica, ai nostri giorni, spesso si riduce a propaganda astratta ma senza avere il senso delle questioni, la conoscenza dei territori, l’ascolto degli ultimi della terra.
Le scarpe logore che ha continuato ad indossare papa Francesco, anche dopo la morte, sono segno tangibile di una conoscenza che va oltre le parole e che descrive il consumarsi per amore dell’altro, perché chi vede veramente va oltre le apparenze e si mette in gioco per alleviare il travaglio altrui.
Questa domenica, detta della Misericordia di Dio, è un tutt’uno con il giorno di Pasqua come ad indicarci che siamo entrati in un tempo nuovo capace di conoscere e rivelare l’esperienza del Risorto. È la domenica in cui per i neobattezzati deponevano l’alba, la veste bianca ricevuta durante la veglia pasquale dopo il battesimo, sulla tomba di un martire e così iniziavano la loro missione quotidiana da cristiani.
Incontrare un cristiano, ora, doveva procurare l’esperienza del Cielo perché è di questo che dovevano dare testimonianza.
Il Vangelo di oggi (Gv 20, 19-31) ci introduce in questa esperienza quando i discepoli ancora timorosi per quello che poteva accadere loro dopo avere assistito alla crocifissione del Maestro si trovano chiusi in casa disorientati dall’evento pasquale. Ora è Gesù ad entrare a porte chiuse con quella fattezza corporea che ben conoscevano, quel corpo è necessario per rivelare loro la verità dell’amore sino alla fine.
Tra questi a principio manca Tommaso, l’apostolo gemello che continua a sottrarsi dalla relazione fraterna. È lui a chiedere una prova tangibile per credere perché la fede abbisogna di poggiare sull’Incontro. Gesù gli si presenta e lo invita a toccare le sue ferite che rivelano l’amore che unisce il Cielo e la terra.
Quelle ferite, infatti, sono diventate il segno del perdono e dell’amore sino alla fine. Gesù ha custodito l’amicizia con i suoi ed è entrato anche nella morte per non lasciarsi strappare nessuno. Tommaso a quel punto fa la sua professione di fede riconoscendo il suo Signore e quindi desiderando poggiare in pienezza la sua esistenza in Lui.
Quando due anni fa mi sono recato nei sobborghi di Chennai nella regione del Tamil Nadu e lì ho trovato la tomba di san Tommaso meta di tanti cristiani dell’India, ho avuto fattezza di cosa significasse quella professione di fede per l’apostolo Tommaso: farsi portatore del Vangelo fino agli estremi della terra affrontando la persecuzione fino al martirio trafitto da una lancia.
Per Gesù il segno del colpo di lancia sul costato indicava il colpo di grazia per assicurarsi della morte del prigioniero torturato con la crocifissione, ora equivaleva a mostrare che c’è una vita che va oltre ogni peccato e bruttura dell’umanità, oltre il buio della morte.
La risposta che Gesù da a Tommaso dopo la sua professione di fede è un rincuorarlo sul legame che permarrà anche quando non ci sarà la visione chiara ma subentrerà il tempo della prova: “pur non avendo visto crederanno”. È l’esperienza di ogni credente che dopo l’incontro con il Maestro è chiamato a farsi dono anche quando subentrerà l’aridità del quotidiano apparentemente infruttuoso.
Il potere di perdonare a cui fa riferimento questo brano indica letteralmente il “lasciare” ciò che ha il sapore di morte, la vita ego-centrata che potrebbe impedire la libertà del dono gratuito, la libertà del perdono che ci fa essere portatori di pace nonostante le avversità perché la morte non ha più potere su chi custodisce il dono del Cielo.