Fragilità è scandalo
Sperimentarsi fragili ci permette di rimanere in relazione, il limite schiude all’altro e il senso di solitudine custodisce la mancanza e, dunque, il bisogno di nutrire rapporti umani. Ciò che ci umilia apre alla richiesta di aiuto e alla espressione creativa e, così, permette di nutrire la dimensione del dono.
Abbiamo bisogno, pertanto, di ripensare al significato che diamo alle categorie di forza e di debolezza perché da questo dipenderà la direzione da assumere nel percorso della vita.
Il forte è statico, immobile e rigido, privo di trasformazione. Il debole, invece, è flessibile e dinamico, non è pieno e saturo, ma attende e, quindi, è disposto all’accoglienza, al cambiamento e alla crescita.
Quando i confini si trasformano in fortezze producono esclusione e morte, svincolando dai legami e anestetizzando il cuore. La frontiera, piuttosto, apre al riconoscimento frontale dell’altro, è luogo di debolezza perché permeabile e, dunque, capace di interscambio e di reciproca contaminazione. Stare sulla soglia è l’atteggiamento del debole che non entra se non è invitato e che rimane ospitale con chi può sopraggiungere.
Il debole, infatti, si lascia provocare dall’esistenza altrui prendendosene cura. Il suo è un riconoscere interiormente chi incontra, tanto è sensibile, per esperienza, ai patimenti. Si interessa e se ne prende cura così come indica l’etimologia sanscrita ku-/kav- del termine “cura” che indica l’osservare e cioè il vedere con attenzione il bisogno altrui.
Il prendersi cura restituisce visibilità a chi è abituato a vivere nel nascondimento credendo che la propria esistenza non possa avere valore. La storia ci chiede una sollecitudine speciale nel rintracciare i piccoli di ogni luogo e, così, svelarne il volto.
I deboli rimangono in attesa e la fede nel Cielo – che si china ad ascoltarli – impone una risposta concreta ed incarnata nel quotidiano. È paradossale che i credenti delle diverse religioni continuino a rimanere indifferenti di fronte al grido dei piccoli del mondo e, magari, contribuiscono a fomentare conflitti bellici che non troveranno mai fine.
L’efficientismo contemporaneo porta all’individualismo che isola spegnendo le relazioni. Una società forte è destinata ad implodere perché condannata ad un individualismo privo di prossimità e ad un dinamismo efficentista che logora esaurendo ogni tratto di umanità.
La prossimità che costruisce relazioni non ammette calcolo programmatico ma è frutto di una postura esistenziale in cui l’ascolto orienta le scelte e le priorità di ogni giorno.
Il surplus di possessi e di stimoli senza limite, a cui viene delegato l’agire educativo, corrompono il processo di individuazione deputato a procurare integrità ed interezza del volto personale per, poi, rapportarsi all’altro. L’individualismo frutto della cultura consumistica, dunque, frammenta e chiude esasperando i rapporti umani con escalation di violenze per riuscire a dominare l’uno sull’altro.
Continuare a propinare l’usa e getta quale modello di appagamento, riferito non solo alle cose ma anche alle persone, produce un’idea di sé onnipotente ed una idealizzazione della realtà che, di fatto, non corrisponde all’esperienza reale. Questo processo genera frustrazione ed angoscia esistenziale, impoverisce cognitivamente e porta ad un vuoto depressivo che culmina nello spegnimento emotivo o in dipendenze volte a lenire il malessere.
La debolezza da intendersi come incompiutezza personale, allora, è la consapevolezza che mantiene l’orizzonte del cammino e solo nella debolezza a ciascuno è dato di scoprire ed esprimere la propria originalità e bellezza.
La pretesa di perfezione, diversamente, non permette fiducia ed accoglienza: accogliamo veramente l’altro quando rimaniamo in relazione rispettandone la fragilità.
Solo chi è fragile genera, perché rimane nei rapporti umani e nella storia senza fuggire diventa luogo di custodia e di cura, e così anche le ferite possono essere rimarginate.
Francesco d’Assisi si rese ben conto della sua fragilità personale e quando si sentiva idealizzato tornava a ricordare la sua povertà. Questa consapevolezza gli ha dato la capacità di riconoscere il fratello non in colui che aveva scelto per affinità ma in quello che gli veniva donato dal Cielo attraverso l’accadere quotidiano. Così nel lebbroso ha colto la bellezza di Cristo che gli procurava grande dolcezza d’animo e di corpo, non il nemico da cui guardarsi ma l’amico che gli restituiva il valore della sua esistenza.
L’individuo, dunque, è relazione e interdipendenza con l’altro, altrimenti non ci sarebbe colore emotivo e mancherebbe il senso della vita. Il legame relazionale permette il cammino esistenziale, l’unicità e la libertà di espressione ma l’illusione di fortezza lo trasformerebbe in possesso ed incapacità di consegnare l’altro alla vita.