(Tra) parentesi
La direzione (che persegue la nostra società) è entrata in crisi già da tempo, le nefaste conseguenze dettate dalla crisi ambientale (che in primo luogo è crisi dell’umano,) stanno portando ad una accelerata implosione che determina desertificazione, pandemie, guerre e carestie in tutto il pianeta.
L’individualismo (che ingenera sempre maggiore alienazione) è solo uno dei sintomi del malessere relazionale che stiamo nutrendo ma, diversamente, il prezzo per fermare questo processo sarebbe troppo alto: i mercati finanziari dovrebbero dare spazio all’economia solidale e gli oligarchi non avrebbero più il monopolio delle ricchezze (e le democrazie rischierebbero di avere il sopravvento),
si ridurrebbero le disuguaglianze relative ai beni e sarebbero condivisi i benefici della globalizzazione tra paesi ricchi e poveri e tra i diversi gruppi all’interno di uno stesso paese, in sintesi pensare ad un mondo più giusto sarebbe un reale pericolo!
Abbiamo smarrito il valore relazionale (quello che si regge sulla fiducia nella gratuità), l’unico valore capace di resistere alle intemperie della storia e alle crisi economiche più austere. Quando, ad esempio, alla relazione d’amore si dà un prezzo questa è destinata a finire, o quando ad un’amicizia si pone una condizione essa la corrode fino ad estinguerla. Il problema è che l’altro è visto come “risorsa” e non come persona (ed è secondo questo criterio che le aziende hanno ridefinito l’ “ufficio del personale” in “ufficio per le risorse umane”).
Ma cosa significa “valore relazionale”? Paradossalmente è quello che non vale niente (in termini utilitaristici), considerato come tempo inutile o investimento in perdita in quanto è necessario perderci qualcosa per stare in relazione e, in alcuni casi, finanche la vita (così è stato di tanti martiri della giustizia del nostro tempo).
Il criterio per comprendere il valore relazionale è dato dalla cura del povero e cioè da quel servizio che non ha un tornaconto di tipo economico o d’immagine (anzi arriva a compromettere la propria immagine facendone perdere interesse mediatico), il servizio caratterizzato dall’umiltà e dal nascondimento dove il donare lascia un vuoto importante: quello spazio interiore dove può risuonare il travaglio, il sorriso o lo sguardo dell’altro (quel vissuto che restituisce umanità).
L’attitudine alla vita relazionale è espressa dalla vigilanza (così ne parla il Vangelo di questa domenica, Lc 12, 32-48), che si esprime nell’attenzione a “dare la razione al tempo debito”. L’interesse per la cura altrui, dunque, secondo la prospettiva evangelica parte dal provvedere al bisogno primario: il nutrimento (sebbene molti pensino che il Vangelo parta dalle astrazioni).
Non si tratta di somministrare “il di più” per togliersi un peso di coscienza o, ancora più grave, per ergersi a benefattore dell’altro (come una certa filantropia propria delle fratellanze vorrebbe esibire) perché questo procurerebbe una gratitudine infinita ingenerando sottomissione o, comunque, un ricatto emotivo verso chi viene “aiutato” (equivarrebbe cioè a dargli un prezzo: non sei una persona che vale ma vali perché hai quello che io ti do!).
Il Vangelo è estremamente chiaro a riguardo e Dio si identifica con il povero che si ha di fronte (“ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”). Ripartire dai piccoli è l’occasione per incontrare Dio e la prossimità diventa il modo per trovare il tesoro prezioso: la relazione con Dio.
È necessario parlare di relazione, altrimenti Dio verrebbe oggettificato come fosse un possesso (così è di molti religiosi che attraverso le preghiere recitate, al pari di una formula magica, pretendono di piegare il Cielo alle proprie richieste). I rapporti umani, spesso, rimangono gravemente feriti perché sono retti dal frainteso del possesso in quanto si finisce con il misurarli attraverso le cose da dare o da ricevere.
Nutrire, allora, non significa schiacciare l’altro sul piano emergenziale dell’assistenza per appagarlo e, così, trasformare l’amore in una sorta di stimolazione bulimica per soddisfare continuamente l’altro. Riconoscere la fame vera, piuttosto, è un’arte e significa rispettare le pause nel dialogo, sostenere i no educativi per contenere, riconoscere il bisogno di perdono e di cura individuando la medicina necessaria e non ciò che inebria per anestetizzare (la politica, differentemente, ha deciso di offrire narcotici sociali: liberalizzazione delle sale giochi, movida strutturata sullo sballo, trasformazione del giorno festivo in una corsa sfrenata agli acquisti no stop, attribuire il reddito di cittadinanza per spegnere il desiderio di vita).
Gesù parla di vigilanza perché se il tesoro è relazionale rimani in attesa della persona cara che potrebbe arrivare da un momento all’altro, così come una madre o un padre che alla sera non prendono sonno fino a quando i figli non sono rientrati e, solo dopo, tirano un respiro di sollievo consegnandosi serenamente al sonno. Il bene relazionale è dato proprio da quel respiro che rivela la gioia interiore che procura la presenza dell’altro.
La relazione che cura e il sostare insieme, quindi, sono espressi più dalla pausa che dalla parola, più dall’attesa che dal tempo frenetico, più dal vuoto che dal troppo pieno. La direzione socialmente intrapresa, invece, sembrerebbe quella opposta: tante parole per sottomettere l’altro alle proprie convinzioni, la continua corsa competitiva dove mancano gli sguardi propri dell’incontro, il riempirsi di cose chiamate “regali” che di fatto lasciano voragini interiori.
Il Vangelo restituisce valore relazionale anche alle cose, tutto ritrova un senso se viene offerto (cioè non viene fatto oggetto di possesso ma di condivisione). La moltiplicazione dei pani, ad esempio, è frutto della condivisione e il prezioso nardo che la donna consuma spargendolo sul corpo del Maestro diventa il modo per conservarlo, e questo perché ciò che viene intriso dall’amore è per sempre.
L’amore restituisce verità all’umano ma anche al creato e la liturgia esprime in pienezza questo orizzonte: il pane rappresenta la condivisione delle vite di tutti che viene offerta sull’altare al Padre. L’esistenza personale, infatti, può essere vissuta come compito individualistico dove ciascuno pensa di dovercela fare da solo e quindi si sforza di vivere con una continua ansia da prestazione, oppure può essere scoperta come dono gratuito da nutrire rimanendo in ascolto del Cielo (consegnando il carico di fatica e di successi per ascoltarne il senso).
Il pane frutto del lavoro dell’uomo, allora, non diventa possesso ma viene offerto e presentato al Cielo, é allora che viene accolto e restituito come Corpo di Cristo. È la vita di Dio che incontra la vita dell’essere umano passando per la materia!
Quando il valore della relazione viene perduto l’essere umano finisce col cercarsi un “padrone” ed è interessante notare come nella vita di Francesco d’Assisi, proprio quando lui cercava appagamento attraverso l’ideale cavalleresco, una visione con una voce vengono a mettere tutto in discussione: “Francesco, è meglio per te seguire il servo o il Padrone?” E Francesco rispose: “Meglio il Padrone“. “E allora perché dunque ti affanni a cercare il servo invece del Padrone?” “Cosa vuoi che io faccia?” “Ritorna ad Assisi. Non è questa la tua vita!”.
Il giovane Francesco abbandonate le armi comincia a spogliarsi dei suoi beni e da povero inizia a condividere il suo tempo mettendosi a servizio dei lebbrosi. Del rapporto con loro Francesco dirà: “ciò che era amaro si mutò in dolcezza d’animo e di corpo” (intendendo questo cambiamento del gusto, della visione della vita e del nutrimento più profondo).
Francesco si farà povero per custodire il tesoro prezioso e cioè l’amicizia con Dio. Il non avere più nulla per sé diventava la via per commuoversi ed esultare di gioia per l’amore del Cielo, aveva intuito profondamente che Dio si era fatto servo di tutti senza nessuno escludere. Più era povero e più poteva accogliere la Presenza, più condivideva e più viveva l’incontro.
E non si tratta, certo, di una dicotomia nel rapporto con il Cielo e con i fratelli, per Francesco l’esperienza diventa unica perché scopre il Cielo presente in terra.
C’è un (tra), una parentesi che noi dobbiamo ancora risolvere: fino a quando l’umanità creerà parentesi tra il Cielo e la terra, allora, non potrà dare valore autentico alla relazione smarrendo il gusto e la ricerca del tesoro prezioso.