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Educativa di strada, Incontri culturali, Palermo, Testimoni

Inclusione è stile di vita

La discriminazione sociale oggi assume molteplici forme, viene marginalizzato chi non riesce a sostenere gli standard dell’apparenza consumistica e quindi scartato perché non ha accessori da esibire, dall’auto ai preziosi, o perché non può sostenere determinati stili di vita parecchio dispendiosi.

Lo sguardo è l’immediato veicolo di simile processo in quanto scandaglia l’interlocutore analizzando in primo luogo ciò che appare. Sebbene sia l’ascolto a permettere la reale conoscenza dell’altro, attualmente si privilegia la vista che, di fatto, viene a pregiudicare l’effettivo incontro e l’apertura relazionale consegnando la percezione della realtà all’esteriorità dettata dalla tendenza del momento.

Il risultato è che l’individuo viene espropriato del gusto personale e consegnato alle convenzioni sociali sancite dal mercato dei consumi!

Muovendo da simili premesse sta emergendo un disagio urbano molto grave: intere aree delle città, emarginate per anni e ridotte a subculture, ora stanno rivendicando il diritto ad esserci in modo violento anche per la perpetrata mancanza di politiche di integrazione.

Si continua a marginalizzare quando si pianificano nuovi quartieri privi di luoghi di aggregazione, spazi informali di conoscenza e cura delle relazioni, o privi di servizi essenziali accessibili alle fasce di popolazione indigente. O, ancora, quando la politica si piega alla finanza e legittima l’apertura illimitata di centri commerciali dove i dipendenti sono ridotti in stato di schiavitù e i consumatori ad automi trasportati dal flusso suggestivo delle luci e delle offerte del momento.

Anche il Mediterraneo, storico luogo di incontro e di interscambio tra i popoli, è stato trasformato in uno spazio di esclusione dove i pescatori vengono perfino sanzionati quando prestano soccorso ad una imbarcazione precaria che trasporta centinaia di persone inermi.

Quando lo sguardo non è mosso dall’ascolto tutto viene piegato al proprio autocompiacimento, per cui ci si appropria della vita altrui pretendendo di riadattarla a propria misura. Lo stesso accade quando vengono assolutizzati frasi e segmenti della storia personale di importanti personaggi storici decontestualizzandoli dal senso che, per quella persona, quei gesti e quelle parole hanno avuto. Ad esempio, in tanti assumono a modello san Francesco cogliendone l’amore per il creato ma non tenendo conto che per il povero di Assisi la contemplazione della realtà circostante era così rilevante perché lo portava alla gratitudine per il Creatore.

Anche la discriminazione tra i sessi è una grave forma di violenza che ha segnato la storia adducendo, in modo particolare, la superiorità del genere maschile su quello femminile. Ci rendiamo conto di come questo delirante modello non sia affatto superato nella società contemporanea ma, al contempo, sembra davvero inadeguato il linguaggio inclusivo che pretenderebbe di superare il problema attraverso la cancellazione delle differenze di genere e cioè sostituendo, già nella scrittura, il maschile e il femminile con asterischi o altri simboli. Dal nostro punto di vista questa modalità è altrettanto discriminante e, inoltre, continua a dare potere al maschilismo protratto nei secoli.

Appiattire le differenze attraverso l’uso del neutro equivale a perdere la ricchezza e il valore individuale perché è nel rispetto delle reciproche diversità che ciascuno può crescere esprimendosi autenticamente.

La persona non è neutra come gli oggetti inanimati, ciascuno è capace di una caratterizzazione che lo esprime secondo una sintesi personale che è sempre in divenire perché, nel confronto con l’altro, a ciascuno è dato di individuarsi e di percepirsi per differenza o somiglianza.

Il linguaggio evangelico, piuttosto, utilizza una grammatica legata alla relazione di prossimità ove è possibile riconoscere il volto dell’altro, prezioso, per la sua unicità. Il Vangelo di questa domenica (Mc 1, 40-45) ci rimanda ad una tra le più gravi discriminazioni che ha attraversato la storia umana: l’essere lebbrosi.

Il lebbroso veniva ripudiato e lasciato fuori dalle mura della città, doveva gridare il suo essere lebbroso ai passanti e, casomai, suonare una campana per farli allontanare in tempo. La persona veniva identificata con la sua malattia e pertanto esclusa da ogni sorta di vita sociale e religiosa.

Nella scena evangelica di oggi il lebbroso trasgredisce le prescrizioni e si avvicina a Gesù. Ha percepito, dunque, che poteva lasciarsi incontrare da quell’uomo che riconosceva ogni tipo di individualità rivelando il volto compassionevole del Padre. Non è rimasto a calcolare i rischi di quell’azione che avrebbe potuto procurargli infamia e persecuzione fino alla morte, ma ha osato chiedere di essere purificato.

Per Israele il senso di quella purificazione era ben superiore alla guarigione fisica perché equivaleva al perdono di Dio considerato che la lebbra era indicata come una conseguenza del peccato. Il lebbroso, dunque, con quella richiesta aveva consegnato anche il suo senso di colpa e il sentirsi inadeguato ma aveva avuto fiducia nella capacità di compassione del Maestro che gli stava di fronte.

Gesù, anche lui, trasgredisce le prescrizioni si avvicina e lo tocca per poi guarirlo. Non aspetta di guarirlo per poi toccarlo ma, viceversa, si fa prossimo caricandosi del suo male per curarlo. È la dinamica dell’incarnazione la quale mostra come Dio si china sull’umanità ferita e la guarisce pagando il prezzo di tale distanza. Sulla croce Gesù porta le conseguenze del peccato umano, dunque subisce la violenza e l’invidia di quanti lo condannano, il suo volto è sfigurato – privo di apparenza – ma il suo cuore rimane compassionevole e dunque aperto all’amore per il prossimo.

Il lebbroso gli consegna tutta la sua fragilità perché riconosce che Lui lo avrebbe visto oltre le apparenze ed è per questo che è sanato. La vita spirituale di ciascuno inizia con questa resa e cioè quando siamo capaci di mostrarci a Dio senza nascondimenti perché crediamo che Lui è misericordioso.

Francesco d’Assisi cambia vita quando smette di idolatrare se stesso perseguendo l’ideale cavalleresco e, sceso da cavallo, incontra il lebbroso abbracciandolo e curandolo. Interiormente cambia prospettiva, il suo sguardo muta perché il suo cuore si apre all’amore.

Fratel Biagio, testimone dei nostri giorni, ha lasciato una grande eredità mostrando cosa significhi servire davvero gli scartati della nostra società. Di fatto il vero servo è Cristo e a ciascuno è dato di accoglierlo lasciandosi servire, da questa esperienza scaturisce la necessità del dono per lasciare vivere l’amore ricevuto.